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Vitigni autoctoni italiani, "fuori dall’Italia"

[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]Vitigni autoctoni …è questa una delle parole chiave per indagare il trend attuale del mercato enoico mondiale – accanto a tendenze come #volcanicwine e #naturalwine, con quello che ne consegue a livello di popolarità per regioni come l’Etna o prodotti come il colfondo/rifermentato in bottiglia/sur lie.
Da New York a Copenhagen, dall’Australia al Giappone, i mercati e le carte dei vini sono sempre più recettivi nei confronti delle varietà autoctone, che all’attrattiva di un profilo organolettico nuovo, insolito rispetto al “solito” taglio bordolese e a quello che possono essere uno Chardonnay o un Sauvignon, affiancano anche un forte legame col territorio di origine, che si traduce in un importante potere evocativo, spesso legato a doppio filo con l’enoturismo.
Questa popolarità è un fattore favorevole, soprattutto per l’Italia, dove le varietà autoctone – che peraltro devono ancora essere registrate nella loro totalità – ammontano a circa 700 (settecento) e potrebbero aprire al Belpaese nuove porte, soprattutto nei mercati più ricettivi, curiosi e preparati.

Anche se non vanno sottovalutati gli ostacoli: 
dalla poca conoscenza che richiede un lavoro mediato nella promozione tramite sommelier e ristoratori educati ed oculati (e qui la cucina italiana torna a dimostrare il suo ruolo cruciale per la conoscenza del vino nostrano) alle piccole quantità prodotte che spesso non riescono a soddisfare a livello quantitativo le domande degli importatori.
Ma vi è un anche un altro rischio, minimo ma pur sempre reale: quello che tali varietà vengano impiantate altrove, in Paesi terzi che possano peraltro eludere anche il sistema di tutela UE.
Ne è un caso la Glera portata in Australia da immigrati italiani, che ha dalla sua anche l’italian sounding del nome delle aziende come per esempio Dal Zotto, Pizzini, Politini. Due sono le maggiori zone di produzione del Prosecco australiano: la King Valley nello stato di Victoria che ha inaugurato una vera e propria Prosecco Road e la zona di Adelaide Hills in South Australia.
Il prosecco australiano in patria furoreggia e, grazie ad accordi concorrenziali fra Australia e Cina, potrebbe diventare un competitor per il Prosecco italiano in quel mercato, soprattutto per quei brand per i quali il prezzo è la componente vincente.

In Australia da qualche anno oltre alla Glera, nella Yarra Valley nello stato di Victoria e sulle Adelaide Hills si coltiva anche Nebbiolo.
La zona a nord di Melbourne offre la situazione climatica più simile a quella del Piemonte, grazie al clima temperato e ai rilievi collinari, che ha permesso di ottenere risultati discreti.

Qui, a Heathcote, già 25 anni fa, nel 1993 Ron Laughton di Jasper Hill decise di piantare Nebbiolo.
Il maggiore rappresentante del Nebbiolo vicino a Melbourne è però Luke Lambert, che coltiva la varietà nella Yarra Valley.
Premiato con i 95 punti dal critico Jamie Goode, il suo è il Nebbiolo australiano ad oggi più valutato e costoso – 60 dollari australiani, tasse escluse.
Il Nebbiolo figura anche nei cataloghi di produttori come Pizzini, Coriole, Pannel, Giaconda.
A livello di prezzo, i Nebbioli australiani si collocano fra i 30 e i 60 dollari australiani, mentre per un Barbaresco o un Barolo si spende mediamente sui 100 dollari.

Ma Glera e Nebbiolo non sono le uniche uve italiane che hanno preso la via dell’estero…il caso più famoso, ma anche quello più controverso è quello dello Zinfandel, il nostrano Primitivo – anche se sussistono con quest’ultimo differenze di vigoria e dimensioni del grappolo.
Recenti studi hanno dimostrato infatti che il Primitivo italiano e l’antica varietà croata del Kastelanski sono geneticamente identici allo Zinfandel.
Tuttavia, lo Zinfandel non raggiunse le sponde americane grazie ad immigrati italiani quanto piuttosto croati che l’avrebbero importato a Boston attorno al 1820, tanto che, ad oggi, il primo riferimento del nome si trova in un annuncio pubblicitario del 1832.
Da qui, quello che ormai era conosciuto col nome di Zinfandel sarebbe stato portato in California dove nel tempo si è acclimatato fino a sviluppare caratteristiche proprie, tanto che lo stato della California esige che a livello di etichettatura, Zinfandel e Primitivo vengano designati con due diversi nomi.

Non sempre l’omonimia, d’altra parte, indica identità genetica: è questo il caso della Bonarda in Argentina, che non è lo stessa varietà italiana ma bensì la Douce Noir diffusa in Savoia.
In Veneto e Friuli la sorpresa riguarda invece il Cabernet Franc: gran parte di quello che è stato piantato in passato come Cabernet Franc non è tale ma è invece Carmenere.
I due vitigni per quanto simili, hanno tuttavia delle diversità: rispetto al Cabernet Franc, il Carmenere è più intenso e speziato.

Ad esemplificare la confusione fra i due è la celebre etichetta del lupo travestito da pecora che campeggia sul Carmenero di Ca’ del Bosco.

L’azienda ha collaborato per anni con l’Università di Agraria del sacro Cuore di Piacenza proprio per indagarne la natura.
E se il Carmenere è stato importato in Veneto dalla Francia, quella che arriva ora è la storia di un marchio veneto che ha esportato la Corvina in Argentina.
Da oltre un decennio l’azienda Masi con il progetto Masi Tupungato, sviluppato nell’omonima regione, coltiva cento ettari fra i 900 e i 1.000 metri di dislivello sul mare, con esposizione a sud ovest ed escursioni termiche notevolissime fra giorno e notte.
Gli esperimenti iniziali hanno permesso di testare in vigneto uve sia bianche che rosse, sia italiane che internazionali, per capire quali di esse reagivano meglio col suolo di origine vulcanica e le piogge estremamente scarse ma controbilanciate dalla neve. Terreni vulcanici, altitudine, ventilazione costante ed importanti escursioni termiche favoriscono una viticoltura di qualità e una gestione in biologico.
Le prime prove hanno anche visto partite di Corvina arrivare dall’Italia per subire a Tupungato il processo di appassimento onde capirne la fattibilità.
Un dubbio presto risolto e che ha convinto l’azienda veneta ad adottare la tecnica dell’Amarone su Malbec e Corvina dando vita ad un vino che porta il nome di Corbec.

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