Dopo mesi di preparazione, lo scorso giugno l’Italia e l’Australia hanno finalmente avviato le trattative per raggiungere un accordo commerciale di libero scambio.
Un accordo che vedrà coinvolto anche il settore vinicolo e dove la controversia per l’utilizzo del nome Prosecco, in corso da anni, potrebbe rivestire un ruolo chiave nella contrattazione.
Prosecco made in Australia
Già dalla fine degli anni Novanta, in tempi ancora non sospetti, in Australia si è iniziato a produrre uno spumante da uve Prosecco – allora ancora chiamate così – definito con lo stesso nome delle uve usate, ovvero Prosecco.
Ad avere avviato la produzione sono stati infatti emigrati di origine italiana, proveniente proprio da quelle colline del Conegliano Valdobbiadene che oggi sono una delle roccaforti della bollicina italiana.
La produzione del Prosecco è cresciuta nel tempo, tanto che oggi nella King Valley ,nello stato di Victoria, esiste una strada ad esso dedicata, la cosiddetta “Prosecco Road”.
Ad aggravare la situazione, concorre l’Italian sounding dei produttori, che hanno cognomi veneti, molto simili a quelli che si possono trovare per l’appunto in Veneto e in Friuli, le due regioni dove è permessa la produzione della bollicina.
Dal Zotto, pioniere del Prosecco australiano, ne è un chiaro esempio.
Otto Dal Zotto, proveniente da Valdobbiadene e proprietario dell’azienda Dal Zotto Wines, fu tra i primi ad impiantare vigne a glera – conosciuta allora appunto con il nome Prosecco – nel 1999 nella King Valley.
Ad oggi, l’Australia vanta varie centinaia di ettari coltivati a glera, per una produzione di 20 milioni di bottiglie e un valore di circa 40 milioni di euro, un dato in forte crescita.
Prosecco: “uno, nessuno, centomila”.
Il boom che lo ha visto protagonista negli ultimi anni, ha reso il Prosecco non solo la bollicina più in voga, in grado di togliere terreno al più rinomato e intimidatorio – vuoi per il costo, vuoi per la nomea – Champagne, ma lo ha reso anche un prodotto ampiamente appetibile per imitazioni di qualsiasi sorta.
Prosekt e Prisecco, Kressecco e il Progrigio dell’Asda, sono solo alcuni degli esempi con cui da anni combatte il Sistema Prosecco – l’entità che raggruppa i tre consorzi italiani del Prosecco, ovvero il Consorzio del Conegliano Valdobbiadene e quello di Asolo, che tutelano le rispettive Doc e il più grande Consorzio del Prosecco Doc.
Secondo l’Ispettorato centrale repressione frodi del ministero delle Politiche agricole, il Prosecco è infatti il prodotto italiano più contraffatto.
Solo nel 2016 sono state 400 le segnalazioni di irregolarità intercettate in Germania, Regno Unito, Polonia, Olanda, Austria, Irlanda, Svizzera, Croazia, Danimarca, Romania e Spagna, riguardanti la vendita di “falso Prosecco alla spina”, “falso Prosecco in lattina” e “falso Prosecco rosè”.
#proseccoontap
La vendita di sfuso, pratica che rimane illegale laddove vi sia una denominazione di origine, come in questo caso quella del Prosecco, rappresenta un problema di grossa entità, ed è di fatto ampiamente adottata all’estero, anche nella civilissima Londra.
Il Prosecco “on tap”, come viene chiamato lo sfuso alla spina, si può trovare promosso a prezzi irrisori che lasciano fortemente dubitare sulla natura del vino gassificato bianco venduto come Prosecco, con una perdita di immagine e di profitto che non può che danneggiare la denominazione italiana.
La modalità on tap è diventata tanto famosa a Londra da essere divenuta un vero e proprio hastag su Twitter #proseccoontap– poi da alcuni convertito in #fizzontap – contro cui si era espressa anche la BBC nel 2015, con un articolo che si intitolava “Why prosecco on tap is not real prosecco”.
Ad oggi tuttavia, a Londra sono sempre più numerosi i casi di minivan che servono presunto prosecco alla spina.
Il contenzioso Italia-Australia
Già nel 2013 l’Italia aveva chiesto un intervento dell’Unione europea in merito al caso del Prosecco prodotto in Australia e l’Europa come riposta aveva inoltrato la richiesta al governo australiano.
Una richiesta che era caduta nel vuoto, risultando in un nulla di fatto.
Il cavillo che ad oggi non ha ancora portato a redimere il caso, va ricercato nel fatto che fino al 2009 l’uva utilizzata per produrre il vino Prosecco veniva essa stessa chiamata prosecco e non era come è stato deciso e regolamentato in quell’anno.
Il che, sostengono i viticoltori australiani, li esonera dal dover cambiare nome del loro Prosecco che non farebbe riferimento ad un vino certificato prodotto in una specifica regione, quanto piuttosto all’uva che ne è alla base.
“Ross Brown della cantina Brown Brothers –riporta Wine Meridian –sostiene che impedire l’utilizzo della denominazione “Prosecco” sarebbe come impedire di usare Sauvignon Blanc o Chardonnay e che la situazione non è confrontabile con quella dello Champagne perché Prosecco non ha mai storicamente indicato una zona geografica fino al 2009”.
“I produttori australiani coltivano e vendono la varietà col suo nome corretto, che è Prosecco” spiega Tony Battaglene, che rappresenta la Federazione dei produttori australiani e sostiene i produttori australiani nell’utilizzo del nome Prosecco.
“Il termine Glera, d’altro canto, è stato introdotto solo nel 2009 quando l’Unione Europea ha cambiato le regole lì per controllare e restringere l’uso del nome Prosecco in Europa.
Se i produttori italiani riconoscono che il Prosecco è registrato nell’elenco nazionale australiano delle varietà, tuttavia restano fermi nella propria posizione, sostenendo che i produttori australiani non dovrebbero poter chiamare i loro vini Prosecco.“– riporta un recente approfondimento di Forbes in materia ( leggi articolo ) .
Il prezzo del Prosecco
Un contenzioso non da poco, visto che secondo la Federazione dei produttori australiani, il Prosecco australiano è cresciuto di oltre 50 punti percentuali nel 2017, generando un valore di 60 milioni di dollari australiani, circa 40 milioni di euro al cambio attuale.
Una cifra che ammonta al 1.5% del valore totale del vino australiano che si aggira sui 40 miliardi di dollari australiani.
Una percentuale non certo alta quella dell’1.5% ma che, dato il successo planetario del Prosecco, potrebbe crescere in maniera esponenziale e per la quale un cambio di nome costituirebbe un serio problema.
Questa considerazione supporta i viticoltori australiani nel non voler abbandonare il nome Prosecco e a continuare la battaglia legale contro gli altrettanto agguerriti produttori veneti e friulani.
Non manca tuttavia chi sostiene che il Prosecco australiano potrebbe essere non tanto un concorrente quanto un alleato per la denominazione italiana.
Ad esempio, Nik Darlington di Red Squirrel Wine sostiene – nelle parole di Fabio Piccoli su Wine Meridian – che “nella zona della King Valley, operano poche cantine, di dimensioni ridotte e spesso a conduzione famigliare (di origine italiana).
Le radici italiane sono forti e non solo collegano il Prosecco ad una cucina adatta a questo vino ma anche collegano le diverse cantine fra di loro, in uno sforzo comune per promuovere la zona. Questo fa sì che il potenziale di crescita sia enorme, anche perché il Prosecco prodotto in Australia è economico ma non è certo di scarsa qualità.
Per concludere, la King Valley potrebbe diventare un esempio positivo per moltissime cantine italiane. Persino i francesi hanno visto il successo del Malbec argentino più come uno stimolo che come un oltraggio”.
Un caso destinato sicuramente ha subire una svolta con il nuovo trattato, per il quale l’Italia lascia intendere di voler usare il Prosecco come pedina fondamentale nelle trattative.