[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]Fra le grandi sfide che la viticoltura sta affrontando e sempre più dovrà fronteggiare vi è il cambiamento climatico. Non a caso la Court of Master of Wines ha organizzato a maggio scorso, un incontro sul cambiamento climatico, l’International Cool Climate Wine Symposium e altrettanto farà per il 2018, segno che questa tematica è cruciale nel delineare il profilo dell’enologia a venire.
Cambiamento climatico non significa infatti solo possibilità di coltivare la vite laddove fino a trent’anni fa era impensabile – il sud dell’Inghilterra solo per citare l’esempio più eclatante – ma anche gestire il progressivo innalzamento del tenore alcolico come pure affrontare un andamento del clima sempre più irregolare, con siccità all’ordine del giorno. A questo va aggiunto l’arrivo di patogeni nuovi come la Drosophila Suzuki (leggi il post) ma anche la nota flavescenza dorata che negli ultimi anni ha fatto rilevare una preoccupante recrudescenza.
La soluzione a questi problemi potrebbe essere però meno lontana di quello che pensiamo, se non addirittura sotto i nostri occhi, nella vite stessa, in particolare nei cosiddetti vitigni resistenti. Resistenti alla siccità, come quelli su cui sta lavorando il Wine Research Team, ma anche alle malattie, soprattutto quelle fungine. Proprio a questo secondo gruppo appartengono i PIWI, acronimo di Pilzwiderstandfähig.
Si tratta di vitigni resistenti ai funghi, nella fattispecie varietà:
Bronner, Cabernet Carbon, Cabernet Cortis, Gamaret,
Helios, Muscaris, Johanniter, Prior, Regent e Solaris
oltre a
Monarch Noir, Muscari Blanc, Prior Noir e Souvignier Gris,
che, solo qualche mese fa, la Francia ha approvato
fra le varietà ampelografiche ammesse (leggi).
Le sperimentazioni su questi vitigni sono partite dalla Germania ormai decenni fa, seguita da Austria e Svizzera, ma l’Italia non è stata a guardare. Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia guidano infatti importanti progetti di ricerca, grazie alla collaborazione con centri quali Fondazione Edmund Mach – Istituto Agrario San Michele all’Adige, Innovitis (Istituto privato con sede a Bolzano), Università di Udine e il CRA-Vit di Conegliano Veneto (Treviso). E proprio su uno dei vitigni più importanti per l’economia Veneta, la Glera, si stanno conducendo le ricerche, oltre che su Raboso del Piave e, nel Vicentino, sul Solaris.
Se le normative non sono ancora al passo coi tempi ‒ nonostante l’iscrizione al registro delle varietà i PIWI sono soggetti alle limitazione di cui all’art. 8, comma 6, del D.lgs n.61/2010 che impedisce l’utilizzo delle uve raccolte per la produzione di vini di DOC e DOCG ‒ qualcosa si sta tuttavia muovendo: la prima degustazione di vini Piwi da parte di Veneto Agricoltura risale infatti ormai a due anni fa, quando durante il Vinitaly 2015, venne organizzata una degustazione ufficiale per fare il punto della situazione.
Oggi a livello internazionale l’Associazione PIWI, nata nel 2000, conteggia oltre 350 membri provenienti da 17 Paesi diversi fra Europa e Nord America e sempre più vivo risulta l’interesse dei produttori che constatano la possibilità di una riduzione netta, a volte sino all’80% dei trattamenti antifungini, in una direzione che parla anche al consumatore attento alla sostenibilità.
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