interview

“Non abbiamo bisogno della barrique”

Per Alberto Antonini, fra i 5 migliori enologi al mondo secondo Decanter, ne siamo troppo dipendenti .

“Per fare un vino di alta qualità bastano anche le vasche di cemento o le grandi botti non tostate”.
Parola di Alberto Antonini, fra gli enologi che hanno modellato la viticoltura mondiale grazie ad un lavoro di consulenza che lo vede impegnato sui cinque continenti: dall’Italia all’Argentina, dal Cile alla California, dalla Spagna all’Australia, passando per Armenia e Uruguay.
Laureato in Scienze Agrarie all’Università di Firenze con una tesi sui vitigni toscani in via di estinzione, si specializza poi a Bordeaux e a Davis in California e dopo i primi passi in Toscana, presso nomi storici quali Frescobaldi e Antinori, si apre all’esperienza internazionale. Lungi però dall’imporre una ricetta univoca dovunque, dall’impiegare iniezioni di botox che omologassero le differenze enologiche dei vari territori, Antonini ha invece evidenziato tali peculiarità per fare emergere le diverse fisionomie, in un approccio all’Anna Magnani che alla sua truccatrice disse: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!” Nel caso dei territori vinicoli le rughe, queste caratteristiche distintive, sono frutto di centinaia d’anni di interazioni fra vita organica e inorganica che hanno coinvolgono il suolo, l’aria e il vitigno stesso. Applicare una ricetta standard, una viticoltura di sintesi chimica come pure una pratica di cantina basata su estrazioni massicce e barrique significa silenziare questa biodiversità, omologare il gusto in risposta ad un’esigenza.

Davvero non abbiamo bisogno della barrique?

“Vogliamo creare vini per il mercato o creare un mercato per i vini? È questo il punto. La barrique, come altre pratiche enologiche, è invasiva, annichilisce l’autenticità del vino. Ad essa si affiancano fattori come la sovramaturazione che dà certamente più struttura ma toglie espressione al vino, la sovraestrazione con pratiche quali il salasso che dà più concentrazione ma toglie di carattere, la barrique che al vino fa perdere energia e vitalità. E poi ci sono due figure che possono diventare pericolose: l’agronomo, se usa prodotti di sintesi che riducono la ricchezza organica del luogo, e l’enologo qualora nei vini che produce emerga più la sua mano che il carattere del vino”.

Quindi la sua non è una provocazione?

“Non lo dico io che non abbiamo bisogno della barrique. Lo dicono i grandi vini del mondo. Poi se il nostro obiettivo è quello di creare vini per il mercato, liberi di essere Britney Spears. Però sono musicisti come Mozart e Jimi Hendrix che resistono alle mode: non a caso erano autori autentici, che di mercato non si sono mai interessati”.

Dalle chips al cemento e all’anfora, passando per i Barolo Boys? Dove stiamo andando?

“Più che parlare di anfora, botte, acciaio e cemento, dovremmo parlare di vino. L’obiettivo è un vino buono. Il resto è uno strumento per arrivare al risultato finale. Si deve inoltre uscire dalla logica del “tanto è meglio”: non è che se faccio un vino più strutturato allora per forza è meglio”.

Ha adottato la biodinamica a Poggiotondo – l’azienda di famiglia a Cerreto Guidi, ndr – ma anche in tante realtà che segue. Perché passare a questa novità?

“In realtà non è una novità e nemmeno un ritorno: è una riconferma. La biodinamica non è niente di diverso rispetto a quanto si faceva in Italia un tempo. La viticoltura tradizionale della Penisola è stata basata per secoli su una visione olistica, si guardava la luna per capire quando piantare gli ortaggi o quando imbottigliare, non si usavano prodotti di sintesi, solo zolfo e rame. I diserbanti, volendo usare una metafora, sono come la cocaina per il terreno e la vite stessa: sembra li potenzino, in realtà li distruggono. La media mondiale della durata di un vigneto si aggira fra i 18 e 20 anni. In Argentina e in Armenia, dove la meccanizzazione con i suoi effetti non è arrivata, lavoro con viti di 120-150 anni che hanno una produzione ancora ottimale anche a livello di grappoli per pianta”.

Sono sempre di più i flying winemaker, lei ne è un esempio, che seguono territori completamente diversi fra loro. Non c’è il rischio di omologazione nelle soluzioni adottate?

“Sarò un flying winemaker ancora per poco: ho deciso di comprare, per cui diventerò un sailing winemaker! Scherzi a parte, il rischio c’è solo per quella categoria di winemaker che provengono da un’esperienza di mercato e che quindi tendono ad assecondare o comunque riprodurre le esigenze dello stesso. Personalmente, come winemaker sono più simile alla botte che alla barrique: valorizzo la materia prima che trovo in loco nei vari Paesi, ovvero non solo il vitigno ma anche le persone del luogo la cui conoscenza del territorio è una risorsa preziosissima. È dalla terra che dobbiamo partire per fare un vino buono, quindi l’ottica è quella del winegrower più che del winemaker”.

Quali strade di crescita per l’Italia?

“Capire che i mercati si stanno trasformando da push a pull – ovvero sono i consumatori che decidono quali sono i prodotti che interessano e non più chi li produce o li distribuisce, ndr. Dobbiamo renderci conto che il consumatore è sempre più preparato. A livello personale ho avuto la riprova in occasione di una conferenza tecnica che ho tenuto in Cina: mi sono trovato di fronte non solo un pubblico giovane e nutrito ma estremamente interessato e informato tanto che la conferenza si è protratta per oltre due ore oltre rispetto all’orario di fine per le tante puntuali domande. Un’altra carta che l’Italia si può giocare è quella della valorizzazione dei tanti territori specifici che possediamo. Infine, dobbiamo lavorare sull’autostima, sulla sicurezza con cui presentiamo il prodotto: abbiamo fatto passi da gigante a livello tecnico-qualitativo, ora ci dobbiamo credere”.

 

Intervista per ALEA Evolution, di Irene Graziotto .