dossier

Lieviti : l’enologia che cambia

[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]Due sono i rami dell’enologia dove l’innovazione sta muovendo passi decisivi, che nei prossimi anni porteranno ad una modifica importante, laddove non rivoluzionaria, del panorama vinicolo mondiale.
Lo scorso dicembre, l’evento RIVE in scena a Pordenone, ha permesso di rivolgere uno sguardo ravvicinato ad entrambi questi temi.

P I W I
Il primo riguarda le varietà resistenti, i cosiddetti PIWI  (leggi articolo ALEA), in grado di contrastare le malattie fungine.
Sviluppati in Germania decenni fa, richiedono, grazie alla loro resistenza, un numero inferiore di trattamenti e permettono quindi una viticoltura più sostenibile.
Va sottolineato che ad oggi non esistono varietà resistenti alle malattie sia primarie, quali l’oidio e la peronospora, che secondarie, come ad esempio la Drosophila Suzuki (leggi articolo ALEA).
L’Associazione PIWI, nata nel 2000, conteggia oltre 350 membri provenienti da 17 Paesi diversi fra Europa e Nord America.

A livello internazionale, l’interesse per i Pilzwiderstandfähig , questo il nome esatto , è tale è stato organizzato un concorso, l’International Piwi Awards , proprio per valutare in degustazione bendata le nuove varietà che vengono via via sviluppate nei vari Paesi.
Dal canto suo, l’Italia non sta a guardare: i vivai Cooperativi Rauscedo hanno, infatti, avviato sperimentazioni seriali sugli stessi da quasi un decennio, con richieste crescenti da mercati come la Francia dove le normative attuali obbligano ad una riduzione del 30% dei trattamenti. Fleurtai, Soreli, Sauvignon Nepis, Merlot Khantus sono solo alcune di queste varietà.

Al momento in Italia sono state iscritte al Registro Nazionale delle Varietà 19 PIWI, di cui 10 a bacca bianca e 9 a bacca nera.
Il maggiore ostacolo in Italia per i PIWI rimane il fatto che vini prodotti con queste varietà possono ambire solo all’IGT ma né alla DOC che alla DOCG.
L I E V I T I

Il secondo ramo dell’enologia che ha portato e sta portando a importanti cambiamenti riguarda i lieviti, che negli ultimi 50 anni hanno cambiato in maniera cruciale la capacità di gestione della fase fermentativa, portando a vini più puliti nei sentori, più equilibrati e con anche maggiori potenzialità di invecchiamento.
Se da un lato i lieviti industriali hanno permesso – anche grazie a tecnologie quali la gestione delle temperature – fermentazioni meno turbolente e più prevedibili, dall’altro numerosi produttori si avvicinano con sempre maggiore interesse ai lieviti autoctoni, che si trovano naturalmente sulla buccia degli acini e che permettono di rafforzare ulteriormente la territorialità di un prodotto.


L I E V I T I  I N 
D I G E N I

L’entusiasmo per i lieviti indigeni che in un primo momento aveva coinvolto soprattutto i produttori di vino naturale e biodinamico non ha lasciato indifferente nemmeno aziende e realtà meno “puriste”.
Ne sono un esempio le denominazioni del Barolo, Raboso e Brunello da tempo che stanno investendo nello sviluppo di cosiddetti “lieviti territoriali”, con un’opportuna selezione in laboratorio per isolare i ceppi migliori.
Alcuni si sono già spinti oltre, come ad esempio il Consorzio di Asolo che ha deciso di utilizzare i lieviti auctoni per la creazione della bottiglia consortile che rappresenta la denominazione trevigiana.
Si è iniziato a lavorare con i lieviti indigeni molto tempo fa – racconta Viviana Corich dell’Università degli studi di Padova – quello che è cambiato non sono tanto gli stessi lieviti, quanto la loro tassonomia” che ha permesso oggi di capirne meglio natura e funzionamento.
Cosicché se le candide 20 anni fa venivano viste come negative, oggi l’università e i centri di ricerca guardano a questi funghi con rinnovato interesse.
Un esempio per tutti?
La Starmerella Bacillaris (Candida zemplinina) che riesce a resistere meglio all’alcol e ha notevole carattere fruttosofilo.

Anche oggi che certi meccanismi sono più chiari, rimane tuttavia un grosso nodo nella gestione della fermentazione dei lieviti indigeni, ovvero la presenza di molteplici ceppi che aggiungono complessità ad una dinamica che già di per sé è poco prevedibile e lineare.
L I E V I T I   S E L E Z I O N A T I

E se i lieviti così detti autoctoni permettono di rafforzare la vocazione territoriale, quelli selezionati sviluppano nuovi percorsi, come la gestione dell’alcool che in annate sempre più calde e secche, con un crescente accumulo del grado zuccherino – e quindi dell’alcol potenziale – si rivelerà una carta vincente.
Era il 2015 quando uscì sul magazine “Applied Microbiology and Biotechnology” la ricerca di un team del Consejo Superior de Investigaciones Científicas, guidato da Ramón Gonzáles in collaborazione con Agrovin che ha collaudato un metodo capace di ridurre la quantità di alcol di un vino, fino a quattro gradi, senza alterarne il profilo organolettico.
I ricercatori hanno gestito il metabolismo dei lieviti facendo in modo che producessero meno alcol partendo dalla medesima quantità di zucchero.
I lieviti non convenzionali che riescono “a respirare” parte dello zucchero del mosto invece che fermentarlo, grazie ad un apporto controllato di ossigeno: “quanto più zucchero venga consumato dai lieviti tramite la respirazione, tanto più si ridurrà il grado alcolico del vino”.
L’obiettivo, puntualizzano i ricercatori, non è tuttavia quello di produrre vini senza alcol, ma “cercare di compensare gli effetti dell’eccesso di zucchero con cui l’uva entra in cantina sempre più frequentemente. Solitamente, i metodi usati si basano invece sull’eliminazione selettiva di parte degli zuccheri, prima della fermentazione, o dell’etanolo in fase post-fermentativa, procedimenti spesso aggressivi per l’equilibrio sensoriale del vino.”

Storicamente, i lieviti sono stati selezionati per la loro capacità fermentativa, la cinetica fermentativa alle diverse temperature, la produzione di bassi quantitativi di acido acetico e la resistenza all’anidride solforosa.
Tuttavia, recentemente vengono presi in considerazione anche altri criteri quali:
la capacità di rafforzare il colore grazie alla formazione metabolica di pigmenti stabili e l’esiguo assorbimento degli antociani da parte della parete cellulare dei lieviti
l’assenza di attività del beta-glucosidasi che prevenga la degradazione del colore
la facilitazione della stabilizzazione colloidale nei vini rossi ottenuta grazie ad una sosta sulle fecce
la valorizzazione idonea dell’aroma grazie alla produzione di componenti volatili come gli esteri e alcoli superiori, assieme alla esigua produzione di sapori sgradevoli
la creazione di struttura e corpo grazie alla produzione di poli-alcoli come il glicerolo e 2,3-butanodiolo e il rilascio di mannoproteine e polisaccaridi.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]