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Anidride Solforosa: status quo e alternative

[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]L’uso dei solfiti è fra le tappe che hanno permesso all’enologia moderna di diventare tale. Infatti, se l’utilizzo di fumigazioni con anidride solforosa per risanare fusti e locali è attestato anche nell’antichità, tuttavia l’impiego continuativo della stessa in enologia risale ai primi dell’800, mentre è solo alla fine del secolo che l’uso viene esteso anche alla pratica di cantina e solo nel primo decennio del Novecento che prende piede anche in Italia.

 

 

Oggi l’anidride solforosa e i solfiti sono bersaglio di un attacco di inusuale violenza. Se è innegabile, da un lato, che la SO2 possieda un’elevata tossicità (D.L.50 =1,5 g /kg di peso corporeo; D.G.A.=0,7 mg /kg di peso corporeo – dati FAO-OMS), dall’altro lato si constata un atteggiamento quasi bipolare da parte del consumatore medio che ne ripudia l’uso nel vino ma ne ignora in toto la presenza in quasi tutta la filiera agroalimentare come conservante. Nei cibi i solfiti si nascondono infatti dietro sigle, come la E220 che indica per l’appunto l’SO2 e che viene usata in maniera massiccia soprattutto per frutta secca ‒ fichi, albicocche e prugne in primis che ne contengono fino a 2000 mg/Kg ‒ ma anche in preparati per purè, crostacei, senape.

 

La pratica enologica non sta tuttavia a guardare: il trend attuale e le migliorate condizione igieniche stanno, infatti, portando ad una progressiva riduzione della stessa soprattutto nelle prime fasi della vinificazione, grazie all’uso di tecnologie alternative. Questo permette di limitare la produzione di acetaldeide da parte dei lieviti e di determinare il conseguente aumento della frazione di SO2 libera (rispetto alla totale), più attiva in fase di conservazione.

 

Azione antisettica

L’azione antisettica della SO2, estremamente selettiva, è quella conosciuta da più tempo e quella che ne ha determinato l’utilizzo capillare in enologia. Nei mosti e nei vini, la solforosa limita pesantemente lo sviluppo dei batteri (lattici e acetici) e dei lieviti selvaggi (a scarso potere alcoligeno o con metabolismo prevalentemente ossidativo -fioretta), mentre i ceppi selezionati di Saccharomyces presentano un’ottima tolleranza all’additivo, in quanto appunto selezionati anche in base a tale carattere. Questa azione è stata quindi fino ad oggi considerata insostituibile al fine di consentire agli starters di fermentazione di prendere il dominio del mezzo e di ottenere un buon decorso fermentativo. Tuttavia, l’esasperazione di tale convinzione determina spesso degli errori nella gestione della fermentazione stessa. Una chiarifica troppo spinta del mosto, allo scopo di abbattere la flora selvaggia, seguita da un’eccessiva solfitazione, determina infatti uno squilibrio nel metabolismo dello zolfo da parte dei lieviti. Il lievito utilizza infatti lo zolfo per produrre alcuni aminoacidi (cisteina e metionina); in mancanza di sostanze azotate, questa produzione è notevolmente ridotta e la cellula elimina l’eccesso di zolfo come idrogeno solforato. Da qui la conseguente formazione di mercaptani, e odori anomali, di cui l’ambiente riducente determinato dalla fermentazione e dalla solfitazione stessa può enfatizzare il fenomeno.

Un altro problema è legato alla tossicità dell’SO2 per la cellula; i lieviti, infatti, reagiscono alla sua presenza, incrementando la liberazione acetaldeide nel mezzo. Quest’ultima è un potente sequestrante dei solfiti, così che alla fine del processo fermentativo buona parte della solforosa aggiunta sarà presente in forma combinata. Non è raro che un’addizione di SO2 al mosto dell’ordine di 10 g/hL, determini al primo travaso un tenore di libera pressoché nullo, mentre la totale rimane a 7 -8 g/hL; il problema pertanto resta quello di poter utilizzare solo una quantità limitata di additivo (per rimanere a valori al di sotto dei limiti), nella fase in cui ce n’è più bisogno, e con il rischio di vedere le successive integrazioni, via via in forma combinata.

Fortunatamente, l’azione antisettica risulta quella più facilmente sostituibile; a prescindere da pratiche quali la pastorizzazione, una corretta gestione delle fasi prefermentative, attraverso un inoculo immediato degli starters selezionati e il controllo della temperatura, consente di ottenere una fermentazione pressoché in purezza, anche in assenza totale di anidride solforosa, con il vantaggio di poter gestire meglio le successive aggiunte in fase di conservazione. Logicamente una fermentazione in totale assenza di SO2 dovrà tenere in considerazione lo stato sanitario dell’uve e le condizioni igieniche della cantina.

Il problema, nel caso dei vini bianchi, rimane la gestione della fermentazione malolattica. Tale fermentazione secondaria è soggetta a fattori, tra cui un alto valore di pH e i tenori di SO2. L’azione determinante dell’SO2 può venire anche in questo caso sostituita, almeno in parte, mediante l’impiego di mezzi alternativi quali il lisozima che svolge un’azione specifica verso i batteri lattici (Pediococcus spp.,Lactobacillus spp.,Oenococcus spp), provocandone la lisi mediante degradazione della parete cellulare; l’azione di tale enzima è importante soprattutto in vini a pH alti nei quali, mentre l’azione antibatterica dell’SO2 è più bassa (per il minor tenore di libera molecolare), l’attività del lisozima è maggiore, chiaramente legato anche al ceppo batterico e all’attività dell’enzima.

 

Azione antiossidante

L’azione antiossidante e quella antiossidasica dell’SO2 riguardano la sua capacità di agire sull’equilibrio redox del vino. La prima appare relativamente modesta e avviene mediante l’ossidazione dei solfiti a solfati, “sequestrando” l’ossigeno ed evitando l’ossidazione dei mosti e del vino sul lungo tempo, specialmente se quest’ultimo si trova a bassa temperatura, condizione favorevole alla solubilizzazione dell’ossigeno nella massa. L’azione antiossidante della solforosa è solo in parte surrogabile attraverso l’impiego di altri antiossidanti naturalmente presenti nel mosto e nel vino o aggiunti in fase di affinamento, come ad esempio l’acido ascorbico (vitamina C). Questo additivo viene impiegato fino ad una dose massima di 15 g/hL, in virtù della sua forte azione antiossidante, solitamente in associazione ai solfiti; non si tratta pertanto di un vero e proprio mezzo sostitutivo, ma piuttosto di uno strumento rafforzativo. La sua azione è molto più rapida di quella dell’SO2 ma meno prolungata nel tempo; si presenta inoltre utile per mantenere il ferro allo stato ridotto diminuendo il rischio di casse ferrica. Il suo impiego pertanto diventa interessante in seguito a brusche ossigenazioni dei vini (es. prima della messa in bottiglia), più che per garantire una conservazione prolungata degli stessi. L’acido ascorbico presenta anche un’azione indiretta nei confronti delle polifenolossidasi, anche se il suo impiego sui mosti non è consentito dalla legislazione comunitaria. Altro supporto della funzione antiossidante dell’SO2 sono i tannini enologici; il loro impiego nella tecnologia dei vini bianchi non può essere tuttavia determinante da questo punto di vista, in quanto un loro utilizzo in dosi eccessive compromette pesantemente le caratteristiche sensoriali dei vini stessi. L’acido citrico trova, infine, impiego prima della messa in bottiglia come chelante del ferro (Fe3+), potente catalizzatore delle reazioni ossidative.

 

Azione antiossidasica

Più complessa è invece l’azione dell’SO2 nei confronti delle ossidazioni enzimatiche (azione antiossidasica), in quanto tali ossidazioni sono più rapide di quelle chimiche. Questo problema si rivela particolarmente pesante nel caso dei mosti. Le polifenolossidasi (PFO) sono dei potenti catalizzatori delle reazioni ossidative; la loro presenza nei mosti è uno dei fattori di instabilità principali per i vini bianchi. Il problema si aggrava ulteriormente nel caso di vinificazione di uve fortemente colpite da Botrytis cinerea, in quanto alla tirosinasi dell’uva, inattivata dall’SO2 e facilmente abbattuta mediante l’impiego dei normali chiarificanti (es. bentonite), si aggiunge la laccasi secreta dal fungo e decisamente più resistente ai trattamenti. Questo enzima, inoltre, presenta un’attività molto maggiore rispetto alla PFO dell’uva, determinando degli effetti negativi molto più marcati sulle caratteristiche dei vini. La tirosinasi infatti agisce sugli orto-difenoli; tale attività si estrinseca in modo particolare sugli acidi idrossicinnamiltartarici (ICT), ovvero sugli esteri degli acidi cinnamici che vengono ossidati a chinoni. Questo innesca una serie di polimerizzazioni ossidative che determinano l’imbrunimento del colore con effetti negativi sulle proprietà organolettiche (casse ossidasica). La tirosinasi è in grado di agire anche sui monofenoli ossidandoli a orto-difenoli, a loro volta soggetti all’attività catecolasica dello stesso enzima. La laccasi, invece, è meno specifica della tirosinasi dell’uva, in quanto agisce anche sui meta-difenoli, sulle catechine e sulle antocianidine, quindi la sua azione sarà più intensa perché più composti sono soggetti ad esserne il substrato d’azione; inoltre la laccasi è in grado di inattivare anche degli importanti antiossidanti naturali come il glutatione e l’acido ascorbico, che invece contrastano l’attività della tirosinasi. L’azione dell’anidride solforosa si estrinseca sulle strutture proteiche delle PFO, inattivandole; come detto la laccasi resiste maggiormente a tale azione; infatti la diminuzione del consumo di ossigeno in seguito a solfitazione è più lenta in mosti ottenuti da uve botritizzate. Oltre a tale azione diretta, un’azione indiretta sull’attività delle PFO è legata al consumo di ossigeno da parte dell’additivo e all’azione riducente sulle forme chinoniche. Proprio per questo, l’attività antiossidasica dei solfiti è finora stata considerata pressoché insostituibile. Negli ultimi anni, tuttavia, alcune tecnologie innovative si sono dimostrate un’ottima alternativa per il controllo delle PFO nei mosti; il tannino enologico, ad esempio, sembra avere effetti abbattenti sulla laccasi, mentre decisamente più interessante è il caso delle tecnologie basate sull’iperossigenazione. Questo principio, introdotto da Müller – Späth nel 1977, si basa sulla saturazione dei mosti con un eccesso di ossigeno (addizionato come tale o sotto forma di aria), che determina l’ossidazione di tutto quello che di ossidabile c’è già a partire dalla fase prefermentativa; le successive operazioni di chiarifica elimineranno i polimeri bruni formati. In realtà, prima della fermentazione i mosti iperossigenati presentano una colorazione bruna molto intensa, che verrà via via perduta durante la fermentazione stessa; i vini così ottenuti presenteranno una stabilità ai test di maderizzazione superiore ai corrispondenti confronti, ottenuti da vinificazione tradizionale. Questo determina un forte abbattimento dei tenori in polifenoli dei mosti già dalla prima ora di trattamento, soprattutto in relazione alle frazioni più facilmente ossidabili; i parametri analitici classici non presentano invece variazioni apprezzabili. L’acidità e il grado zuccherino dei mosti non cambiano in seguito all’iperossigenazione, mentre i vini da mosti iperossigenati possono presentare tenori in estratto secco leggermente più bassi. Si nota invece un calo dell’azoto proteico dei mosti stessi, conseguente alla precipitazione dei polimeri bruni formati che, flocculando, inglobano anche le proteine. Il vantaggio dell’addizione di ossigeno ai mosti è che, oltre alla rimozione immediata dei substrati delle PFO, essa determina anche la denaturazione e l’inattivazione della tirosinasi nel corso delle reazioni ossidative che essa stessa catalizza.

La tecnica diventa particolarmente interessante per la vinificazione di uve affette da Botrytis che con tecniche tradizionali porterebbero a mosti con notevoli problemi in relazione ai fenomeni ossidativi. Le modalità operative del trattamento devono considerare diverse variabili, come la solfitazione (che determina una maggior necessità di ossigeno per l’iperossigenazione), la temperatura (sembra essere ottimale la temperatura ambiente), lo stato sanitario delle uve (le uve botritizzate richiedono più ossigeno), la chiarifica (l’iperossigenazione funziona meglio sui mosti torbidi, in quanto le proteine facilitano la flocculazione dei polimeri bruni). Anche la presenza di opportuni coadiuvanti può essere utile all’effetto stabilizzante dell’iperossigenazione, in quanto facilita la precipitazione dei polimeri chinonici; la tecnica risulta infine particolarmente interessante abbinata alla flottazione. Questa tecnologia non trova peraltro pareri esclusivamente favorevoli, soprattutto in relazione alla frazione aromatica dei vini ed in particolare alla componente varietale. Per alcuni autori il trattamento precoce di ossigenazione lascia relativamente inalterata la frazione varietale, in quanto gli aromi sono ancora presenti in forma di glucosidi e quindi meno soggetti alle ossidazioni. Secondo altri, invece, i vini ottenuti in base a tale pratica sarebbero caratterizzati da una componente aromatica prevalentemente di tipo fermentativo e pertanto contraddistinti da forti similitudini; l’iperossigenazione determinerebbe quindi un livellamento delle caratteristiche varietali dei vini bianchi. Certo è che non tutti i vini sono adatti a tale tecnologia e la scelta della possibilità di ricorrervi va mirata in funzione del prodotto che si vuole ottenere. Ad esempio è noto come il 4MMP, composto solforato tipico dell’aroma del Sauvignon, sia molto sensibile all’ossidazione e si sviluppi meglio in ambiente riducente; per tale varietà la possibilità di ricorrere all’iperossigenazione del mosto andrà pertanto opportunamente vagliata.

 

 

Illimpidimento e azione lisciviante ed estraente

Oltre agli effetti sinora considerati, l’SO2 possiede anche proprietà di illimpidimento dei mosti ed esercita un’azione lisciviante ed estraente nei confronti delle sostanze fenoliche. Se l’azione di illimpidimento appare praticamente trascurabile rispetto all’azione dei normali chiarificanti utilizzati per la pulizia dei mosti, la seconda è invece particolarmente interessante per l’estrazione del colore nella tecnologia dei vini rossi.

Il limite per l’eliminazione totale dell’SO2 se appare oggi possibile tuttavia non è ancora reale e rimane vincolato al fatto che l’azione di surrogati presenta delle limitazioni di natura diversa, che ne pregiudicano le caratteristiche tecnologiche. Tali limitazioni si traducono in un’efficacia d’azione spesso non è analoga a quella dei solfiti o con termini di durata differente; alcuni mezzi sostitutivi danno una copertura solo parziale rispetto all’SO2, soprattutto in relazione all’azione antisettica; i costi dei mezzi sostitutivi non sono per lo delle più convenienti rispetto all’impiego della solforosa; il che comporta un’applicabilità non sempre conveniente né dal punto di vista sensoriale che economico che va vista in relazione alla tipologia di vino da ottenere.

Allo stato attuale delle cose l’eliminazione totale dell’utilizzo dell’SO2 appare non praticabile senza rischi per il prodotto. Aspetto interessante appare invece la possibilità di integrare l’impiego dei solfiti con opportuni additivi o con opportune tecnologie, che andranno scelte in funzione del prodotto da ottenere, della fase tecnologica (es. vinificazione o affinamento) e della tipologia di azione dell’integratore medesimo. Questo permetterà di ridurre notevolmente i tenori di SO2 presenti nel vino, mirandone l’utilizzo alle fasi in cui essa diventa discriminante per la qualità, ovvero ritardandone l’impiego nelle fasi finali del processo produttivo; in tale ottica la riduzione d’impiego risentirebbe di un duplice vantaggio, anche in virtù di un più elevato tenore di solforosa libera, più attiva per tutte le funzioni considerate.

 

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