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Lo chiamano leggenda

[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]È il Prosecco, un vino sul quale nessuno avrebbe scommesso fino a metà anni Novanta e che invece è riuscito a conquistarsi nicchie di mercato impensabili, scardinando persino la roccaforte delle bollicine per eccellenza, Parigi, e diventando simbolo di un modo di essere e stare più che di un prodotto geograficamente collocato, “un brand internazionale a sé stante” nelle parole di Zachary Sussman.

È questa la grande forza del Prosecco ma anche il suo tallone d’Achille:
la capacità di essere un vino accessibile a tutti, che non spaventa né i cuori né i portafogli e non richiede un’etichetta di servizio, tanto che nel 2016 lo Champagne – in parte anche per la concorrenza col Prosecco e la minaccia della Brexit – totalizza il suo terzo peggior risultato, dopo il 2009 e il 2013, stando alle dichiarazioni di Vincent Perrin, direttore generale del Comité Champagne, rilasciate a Decanter.

Il Prosecco è un vino che grazie alla globalizzazione è diventato internazionale, ai limiti della commodity, una Coca Cola enoica, la cui popolarità può ben essere soppesata in base al numero di imitazioni cui viene fatta oggetto: dai Sekt tedeschi, passando fino ai Più Secco fino al nostrano tentativo di un Asti Secco. Sono 140 i tentativi di Prosecco Sounding silenziati nel 2016 dal Sistema Prosecco – l’organo che riunisce i tre Consorzi per questioni di tutela e difesa contro terzi – e più di 500 violazioni on line soppresse dalla Repressione Frodi nel giro di un biennio. Al fenomeno del Prosecco sounding va aggiunta la coltivazione vera e propria di Glera, ben più minacciosa e spesso operata da emigrati di origine italiana, in Paesi come la Nuova Zelanda, il Brasile – dove il Prosecco è un marchio registrato – e l’Australia.

Quello del Prosecco è un mercato che fa gola a molti, grazie alla sua redditività, il che ha scatenato non poche polemiche, spesso con colpi bassi, che pur di fare audience si sono serviti di grimaldelli facili, come quello del presunto inquinamento dell’aria e del suolo nelle zone di produzione. Un dato, che se in un passato fatto di diserbanti irrorati dagli elicotteri poteva essere criticato, ad oggi va soppesato in maniera più attenta. L’aumento del biologico ma anche un approccio più sostenibile in vigna sta limitando questo conflitto e rende invece la viticoltura un perno per l’economia locale e non solo per i singoli produttori, andando ad arricchire il settore della ristorazione e della ricettività e la popolazione nel suo insieme.

Sicuramente, il pericolo della monocoltura va preso in considerazione e ad oggi la più grande sfida del Prosecco rimane quella di riuscire a mantenere viva quanto più a lungo questa infatuazione – e in questo percorso la domanda di ammissione quale patrimonio Unesco delle colline del Conegliano Valdobbiadene si dimostra lungimirante – riuscendo a gestire i numeri a favore dei costi, per una crescita valoriale a tutto tondo.

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