[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]I PIWI, ovvero varietà resistenti, di cui abbiamo recentemente parlato, sono solo una delle risposte possibili al cambiamento climatico. L’instabilità climatica è un problema complesso, che va ad incidere non solo sulla vite stessa e, quindi, sul suo metabolismo, ma anche sullo sviluppo dei patogeni. Periodi prolungati di condizioni ambientali vicine all’ottimale per lo sviluppo del patogeno, come ad esempio temperatura e umidità relativa) portano infatti a epidemie più gravi (si pensi alla Drosophila Suzuki), soprattutto in caso di soggetti policiclici.
Variazioni di temperatura e umidità influenzano infatti il loro tasso di riproduzione, incrementando così il potenziale evolutivo delle singole popolazioni.
Lo scenario che si prospetta è quello di un crescente innalzamento del grado medio alcolico dei vini, veicolato non solo da temperature più alte ma anche dai lunghi periodi di siccità che favoriscono la concentrazione zuccherina e, in ultima analisi, il grado alcolico. A questo va aggiunta la ricerca della maturità e del frutto, che ha caratterizzato l’enologia degli ultimi 20 anni durante i quali sono state adottate tecniche di impianto volte peraltro a combattere una serie di annate particolarmente umide.
La concomitanza di tali tecniche (dai cloni a basso rendimento all’alta densità d’impianto, fino alla vendemmia verde e allo sfogliamento) e dell’innalzamento climatico ha moltiplicato l’effetto desiderato, portando nella direzione opposta. Se infatti si confrontano i grandi rossi italiani, piemontesi e toscani, degli anni ’60-’70 con quelli degli anni ’90 si passa mediamente da concentrazioni di 12,5 % vol. fino a 13,5% per concludere con gli attuali 14-14,5%.
Se un cambiamento a stretto giro dei sesti d’impianto è impensabile, altre vie sono talvolta percorribili: si pensi a quanto l’allevamento a pergola nel caso del Soave si stia rivelando d’aiuto nelle annate più siccitose o la combinazione col Trebbiano, che riesce a conservare meglio l’acidità, si sia dimostrata una tattica vincente per la 2015.
In alternativa, in Spagna si lavora ormai da due anni su lieviti in grado di far abbassare il tenore alcolico di un vino fino quattro gradi, senza alterarne il profilo organolettico. Il team del Consejo Superior de Investigaciones Científicas coordinato da Ramón Gonzáles e in collaborazione con l’impresa spagnola Agrovin è riuscito a gestire il metabolismo dei lieviti facendo in modo che producessero meno alcol partendo dalla medesima quantità di zucchero. Fino ad ora i metodi usati si basano sull’eliminazione selettiva di parte degli zuccheri, prima della fermentazione, o dell’etanolo in fase post-fermentativa, procedimenti spesso aggressivi per l’equilibrio sensoriale del vino.
Questa volta invece sono stati usati lieviti non convenzionali che riescono a “respirare” parte dello zucchero del mosto invece che fermentarlo, grazie ad un apporto controllato di ossigeno: “quanto più zucchero venga consumato dai lieviti tramite la respirazione, tanto più si ridurrà il grado alcolico del vino.” sta lavorando attualmente per l’ottimizzazione del processo con lo scopo di realizzare degli esperimenti pilota già nella prossima vendemmia.
Sullo stress idrico e le conseguenze per l’uva si è concentrato di recente la tesi di dottorato Mach di Stefania Savoi, premiata dalla Società italiana di viticoltura ed enologia come miglior tesi per il 2016 e che verrà presentata il prossimo maggio all’Enoforum di Vicenza allorché avremo modo di approfondirla.
La ricercatrice trentina ha studiato nel suo lavoro di tesi gli effetti di un moderato stress idrico sulla fisiologia dello sviluppo e maturazione dell’acino d’uva in varietà a bacca bianca e rossa usando un approccio multidisciplinare che ha incluso due anni di sperimentazione in campo, l’analisi dei trascritti mediante la tecnica dell’RNA sequencing e l’analisi dei metaboliti su larga scala.
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