Blog
Affinamento, una questione di stile
[vc_row full_screen_section_height=”no”][vc_column][vc_column_text]
Nella creazione di un vino tanto conta la parte fermentativa quanto quella post-fermentativa.
Al termine della fermentazione alcolica, iniziano infatti una serie di processi che permettono al prodotto di rivelare le proprie potenzialità aromatiche, di trovare l’equilibrio organolettico e la propria “personalità”.
Fermentazione malolattica e impiego di tannini come di altri coadiuvanti di affinamento contribuiscono all’evoluzione del prodotto, modellando il vino secondo un canone di stile e gusto e rappresentando, in ultima istanza, la firma del produttore.
Lungi dall’essere un semplice (inter)mezzo, l’invecchiamento si rivela un vero e proprio momento di crescita diventato negli ultimi anni cruciale, sintomo di appartenenza a quella o quell’altra scuola di pensiero – si pensi solo al dibattito barrique versus botte, prontezza di beva versus invecchiamento di lungo tempo, che ha caratterizzato la rivolta dei Barolo Boys alla fine degli anni Ottanta.
Dalla metà degli anni’90 fino ad oggi il mondo enologico è stato travolto da una vera e propria rivoluzione culturale, che ha visto il passaggio da un concetto di enologia “sottrattiva” a quello di enologia “aggiuntiva”.
La filosofia “sottrattiva” intendeva eliminare tutto ciò che nel vino era potenzialmente instabile, per favorire la conservazione, e in generale tutto ciò che era eccessivo anche a livello organolettico/gustativo (eccesso di colore, tannicità, acidità, etc.).
L’arma principale dell’enologia sottrattiva sono le chiarifiche che servono per l’appunto a migliorare il vino a livello di limpidezza e filtrabilità, ma consentono soprattutto la rimozione delle sostanze indesiderate o in eccesso.
Questo modus operandi, che garantiva una effettiva stabilità del vino, portava però nella maggior parte dei casi ad un appiattimento del livello qualitativo e alla spersonalizzazione del prodotto.
Con lo scopo di proteggere la qualità del vino nel tempo, si andava in pratica ad abbattere la maggior parte delle differenze varietali e territoriali, rendendo il prodotto finito uniforme ed anonimo.
L’enologia aggiuntiva è caratterizzata invece dalla volontà di mantenere, per quanto possibile, alcuni elementi costitutivi del vino grazie all’apporto di altri componenti.
Questo processo viene realizzato sia tramite processi tecnologici (macerazione pellicolare, macerazione pre-fermentativa, macerazioni prolungate delle uve rosse, affinamento sur lie, etc.), sia grazie all’apporto di componenti esterne (tannini enologici, derivati di lievito, etc.).
Volendo usare una similitudine, potremmo dire che data una superficie di legno ruvida vi sono due strade per renderla liscia: levigarla eliminando le creste in eccesso (enologia sottrattiva) oppure riempire le fossette con resine e stucchi (enologia additiva).
L’enologia aggiuntiva, oggi ampiamente utilizzata per la produzione di vini di fascia medio-alta, non sarebbe mai stata possibile senza il grande balzo in avanti fatto dalla tecnologia di trasformazione delle uve.
Presse soffici, diraspatrici delicate, vinificatori di nuova concezione sono solo alcuni degli strumenti che hanno permesso questa rivoluzione.
La loro efficacia sarebbe stata tuttavia insufficiente senza i notevoli progressi della viticoltura, capace oggi di portare in cantina uve mature ed equilibrate.
La filosofia che nasce dall’approccio “aggiuntivo” ha così permesso una maggior differenziazione qualitativa dei vini, consentendo anche a piccoli produttori di poter emergere, valorizzando la tipicità territoriale e il savoir faire degli enologi.
Oggi è ormai ampiamente accettato il concetto di vino come prodotto risultante da una sapiente gestione delle uve tramite i processi fermentativi combinata ad una capacità di interpretazione delle potenzialità del prodotto giovane e dei successivi trattamenti in fase di evoluzione ed affinamento. Questo ha indotto il mondo dell’enologia a riflettere.
Considerazioni che un tempo non troppo lontano sembravano astratte oggi sono condivise dalla maggioranza dei tecnici del settore.
L’ossigeno stesso, precedentemente considerato un nemico da cui tutelarsi in ogni possibile modo, oggi viene spesso considerato in chiave positiva nelle strategie di evoluzione e di affinamento.
Si è scoperto che diverse molecole quali tannini, antociani, composti solforati – un tempo ritenute deleterie per il vino – qualora associate ad una sapiente ed oculata gestione dell’ossigeno, possono invece evolversi in composti più complessi, acquisendo stabilità nel tempo e contribuendo ad un aumento della struttura, della morbidezza e della complessità organolettica dei vini.
La tecnica della microssigenazione consente così non solo di risolvere alcune problematiche legate all’equilibrio aromatico dei vini (ad esempio, la chiusura aromatica-riduzione), ma permette anche e soprattutto di gestire in maniera più oculata e razionale l’affinamento andando ad integrare nella struttura del vino quelle sostanze poco stabili che altrimenti dovrebbero essere rimosse con processi di chiarifica.
L’evoluzione del gusto verso sensazioni più morbide, i vellutate e complesse ha portato ad un aumento dell’attenzione nei confronti dei processi di affinamento dei vini.
Esso ha quindi acquisito nel tempo un ruolo sempre più importante e la scienza enologica si è evoluta anche in considerazione di questa specifica fase del processo di vinificazione, sviluppando nuove tecnologie legate all’impiego dei tannini, dei legni alternativi (leggi articolo) ed anche di derivati di lievito impiegati per integrare o sostituire l’affinamento sur lie.
Questa tecnica enologica, spesso confusa con l’affinamento vero e proprio di un vino, ne rappresenta però solo un aspetto.
Ma cos’è esattamente l’affinamento sur lie?
Si tratta di una tecnica adottata inizialmente in alcune zone della Francia (Borgogna, Loira) per la conservazione e l’evoluzione sia di vini bianchi che di vini rossi.
Consiste nel mantenere il vino a contatto con il sedimento di lieviti morti a fine fermentazione alcolica (feccia fine) per un periodo che può variare da alcuni mesi ad un anno.
Le cellule di lievito morte al termine della fermentazione iniziano un processo di autolisi (autodigestione) che porta alla parziale rottura della parte cellulare del lievito che è ricca in mannoproteine, mannani ed altri polisaccaridi che ricoprono un ruolo importante sia a livello organolettico, sia a livello di stabilizzazione del vino.
Con il procedere dell’autolisi vengono inoltre ceduti al vino altri componenti cellulari come polipeptidi (piccole porzioni di proteine) ed acidi nucleici che rivestono un ruolo molto importante nella componente gustativa del vino.
L’affinamento sur lie è una tecnica complessa, impegnativa e non priva di rischi – essa può indurre ad esempio la fermentazione malolattica su vini dove questa non è ricercata.
Pertanto non può essere largamente utilizzata. Inoltre, non vi è modo di separare i vari effetti e di utilizzare solo quelli realmente necessari per il singolo vino.
La ricerca enologica e biotecnologica ha reso disponibili i vantaggi dell’affinamento sur lie per tutte le cantine, minimizzando i rischi legati alla tecnica.
Esistono infatti molti prodotti biotecnologici derivati dal lievito in grado di perseguire diversi effetti sul vino trattato, contribuendo in maniera significativa all’aumento qualitativo del vino.
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]