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Lieviti di ultima generazione, genome editing e nuove sfide

Il mondo enologico non si sta semplicemente trasformando, si sta rivoluzionando.

Il professor Attilio Scienza sui temi caldi del momento.

Ex Direttore generale dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, Accademico ordinario dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino, vincitore del premio Premio AEI per la ricerca scientifica nel 1991, del Premio Internazionale Morsiani nel 2006, del premio OIV-Parigi nella disciplina Viticoltura per il miglior libro scientifico su tematiche viticole e della cultura della vite nel 2003, 2008, 2011, 2012 e 2013, autore di oltre trecentocinquanta pubblicazioni.
Pochi possiedono la competenza del Professor Attilio Scienza – nomen omen, ma chissà quante volte gliel’avranno detto ­­– in materia vinicola. Con lui abbiamo deciso di discutere dei grandi cambiamenti che stanno coinvolgendo – e sconvolgendo – la viticoltura internazionale.

 

Lieviti indigeni, non-Saccharomyces, fermentazioni spontanee. Da dove è partita questa tendenza?

“Come è capitato spesso in questi anni, il vero innovatore nel settore vinicolo è stato il consumatore. Dal consumatore è partita la richiesta di una viticoltura a maggiore sostenibilità ambientale e di vini dalle caratteristiche non standard come erano quelli prodotti con il controllo termico della fermentazione, della barrique e dei lieviti selezionati. La produzione di vini bianchi con la macerazione delle bucce, talvolta in anfora – i cosiddetti vini orange – l’uso di lieviti spontanei e la riduzione della solforosa sono la risposta del mondo produttivo a precise richieste del consumatore”.

Cosa è cambiato?

“Produrre vini rinunciando alla tecnologia non è facile o, per lo meno, è più rischioso. Al Saccharomyces cerevisiae – l’unico lievito attualmente usato per la produzione degli starter fermentativi in quanto grande produttore di alcole e di bassa acidità volatile, che sono due delle doti più importanti che la ricerca ha sviluppato nei lieviti selezionati dall’industria – si stanno affiancando altri lieviti dai nomi molto difficili quali la Torulaspora delbrueckii, la Metschnikowia pulcherrima, il Saccharomyces uvarum. Di norma, per la capacità modesta di sopravvivere all’alcole, questi lieviti sono attivi nelle prime fasi della fermentazione – per essere poi sostituiti da lieviti più performanti – ma generano composti secondari di fermentazione molto ricercati attualmente dai consumatori più esigenti e riescono a ridurre l’acidità volatile. È comunque molto difficile gestire le fermentazioni spontanee e quindi l’industria produce attualmente dei ceppi di questi lieviti che devono essere usati con la tecnica del cosiddetto co-inoculo sequenziale assieme ai ceppi dei lieviti tradizionali”.

Il Consejo Superior de Investigaciones Científicas sta sperimentando lieviti in grado di “respirare” gli zuccheri invece che fermentarli, riducendo così il grado alcolico pur partendo da uve molto zuccherine. Un risultato importante per contrastare i crescenti tassi alcolici dovuti al riscaldamento globale. Su quali altre nuove frontiere si sta lavorando?

“Anche in Italia si sta lavorando su questo tema utilizzando i lieviti sopra citati con la tecnica del co-inoculo sequenziale ma la riduzione di alcole prodotto è abbastanza modesta, circa lo 0,9-1,0% in titolo alcolometrico. Certamente questa non può essere l’unica strada per arrivare a vini meno alcolici; è necessario attuare diverse pratiche che coinvolgono la gestione delle chioma, la nutrizione minerale ed idrica, la programmazione più precisa dei tempi di vendemmia, con una strategia di medio-lungo periodo che porta alla creazione di vitigni meno efficienti nell’accumulo di zuccheri”.

Un accenno al recente scandalo della sauvignon Connection: il lievito “magico” quello usato da alcuni produttori friulani. Ci può spiegare di cosa si tratta nello specifico?

“Non c’è nulla di magico in questi lieviti, che sono il risultato di incroci tra lieviti con caratteristiche diverse (ottenuti senza manipolazione genetica), capaci di esaltare attraverso la fermentazione alcune caratteristiche compositive dell’uva quali i precursori d’aroma. In particolare, valorizzano i composti varietali chiamati nor-isoprenoidi dai quali si originano molti descrittori di frutta tropicale del Sauvignon o di pepe nero e spezie dello Syrah”.

Ed ecco la bestia nera dell’enologia: la solforosa. In merito, qual è il progetto che state sviluppando con il Wine Research Team?

“La riduzione della solforosa non è un obiettivo esclusivo della tecnica enologica ma deve partire dalla gestione del vigneto dove è necessario prevedere l’abbattimento della carica batterica senza dover ricorrere a tecnologie invasive. Tra le tecniche in sperimentazione nelle cantine del WRT rientrano l’uso oculato del freddo, dell’ozono, della parziale disidratazione e dell’etilene. È in fase di pre-applicazione una tecnica molto innovativa che si basa sulla realizzazione di un DNAChip per il monitoraggio della carica microbica dell’uva e del vino”.

Sempre con il Wine Research Team state lavorando sui vitigni resistenti, sia in termini di siccità che di malattie, un fatto cruciale visto non solo l’innalzamento delle temperatura ma anche i nuovi parassiti e malattie come la flavescenza dorata di cui si parla poco ma che è sempre più diffusa.

“Se vogliamo reagire ai cambiamenti che il clima induce nei fenomeni vegeto produttivi della vite, stress idrico in particolare, dobbiamo avere a disposizione portinnesti più efficienti (ad esempio, la serie M ottenuta da Unimi attraverso complessi programmi di incrocio). Inoltre, se vogliamo coltivare la vite senza i trattamenti chimici dobbiamo introdurre nelle nostre varietà da vino i geni della resistenza alle malattie”.

Che tecniche si possono attuare?

“Possiamo fare questo servendoci dell’incrocio con specie americane portatrici dei geni di resistenza ma le varietà che otteniamo non sono uguali a quelle di partenza (che sono la grande ricchezza dell’Italia). Oppure possiamo agire sul loro DNA, introducendo i geni derivati dalle specie resistenti (cisgenesi) o facendo esprimere i geni presenti nelle varietà che coltiviamo (ma che per vari meccanismi genetici evolutivi non riescono ad esprimersi), attraverso la correzione del genoma (genome editing); in questo caso si parla di intragenesi. In ogni caso, non si tratta di organismi OGM (transgenesi) in quanto non si inseriscono geni provenienti da organismi tassonomicamente molto lontani (ad esempio, l’inserimento di un gene di un batterio in una pianta di mais per combattere la piralide). Per la flavescenza il problema è più complesso; per il legno nero – che è affine alla flavescenza –sono stati individuati i geni della resistenza in alcuni vitigni georgiani”.

Vitigni resistenti significa meno fitofarmaci e quindi maggiore rispetto dell’ambiente. Recentemente lei ha dichiarato che la sostenibilità del vigneto inizia col rispetto del suolo. Perché il suolo è cruciale?

“All’origine di questo atteggiamento vi è l’approccio agronomico del passato che ha trascurato lo studio degli apparati radicali a favore di quello aereo. Ha naturalmente avuto un ruolo importante anche il fatto che gli strumenti di analisi dell’epoca non potevano valutare la grande complessità del suolo nelle sue componenti fisiche, chimiche e microbiologiche. Per la sua complessità, un suolo è inoltre sottoposto a diversi processi di alterazione: dall’erosione alla degradazione della struttura fisica, alla acidificazione per dilavamento delle basi, alla salinizzazione, alla riduzione dell’attività biologica per la costante perdita di sostanza organica. Queste alterazioni sono spesso fenomeni irreversibili e, quindi, il suolo non può essere considerato una risorsa rinnovabile. La gestione dell’interfaccia “suolo-atmosfera” si dimostra a questo proposito cruciale per garantire un alto livello di biodiversità nel vigneto perché consente di valutare la variabilità vegetale, animale, fungina ed enzimatica come indicatore dell’equilibrio naturale del vigneto, indirizzando così le pratiche di gestione del suolo (tipologia della copertura vegetale, modalità di intervento, etc.) e favorendo un livello di humus capace di dare stabilità alla struttura del terreno e garantire un apporto energetico alle catene alimentari. Se il suolo è alla base della diversità dei vini e manifesta una elevata fragilità e soprattutto non è rinnovabile, è necessario sviluppare delle strategie conservative che impediscano di disperdere in modo irrimediabile questo patrimonio”.

Quali le sfide della viticoltura e dell’enologia di oggi?

“La più importante è quella che viene definita l’accettazione antropologica dei risultati della ricerca che può in parte essere realizzata con la democratizzazione della ricerca stessa. Per realizzareciò, sono indispensabili due attori che rappresentano una novità nel modo viti-enologico. Innanzitutto, i finanziatori privati, in particolare i produttori di vino, che con il loro contributo pecuniario integrano quello pubblico e indirizzano la ricerca verso temi di attualità come, ad esempio, la creazione di vitigni resistenti che interessano i loro territori. Uno strumento efficace di finanziamento potrebbe essere costituito da un prelievo di 2-3 centesimi di euro per ogni bottiglia. Si potrebbero raccogliere così fondi notevoli senza molta fatica da parte dei produttori. Il gruppo di produttori del WRT e la società Winegraft hanno già manifestato il loro interesse a partecipare ai progetti di Genome editing dell’Human Technopole dell’ ex Expo di Milano, con un loro finanziamento. Questo strumento del crowdfunding ha già mostrato una grande efficacia nel finanziamento di start-up innovative in campi molto diversi. Il secondo attore è rappresentato da società costituite da aziende viticole e da cooperative che dovranno occuparsi della diffusione dell’innovazione genetica e di ridistribuire i proventi alla ricerca. Un esempio virtuoso è rappresentato da Winegraft, che ha acquisito la proprietà intellettuale della creazione dei portinnesti della seria M da parte di Unimi. Winegraft ne cura la diffusione e il finanziamento assieme ai Vivai VCR che hanno l’esclusività nella moltiplicazione e che destinano una parte dei proventi della vendita delle barbatelle nelle nuove ricerche”.

La società sembra però essere scettica nei confronti di queste ricerche?

“Come accaduto anche in passato, quando si introducono innovazioni genetiche “rivoluzionarie” – vedi l’introduzione dei portainnesti nella ricostruzione postfillosserica – la società si divide in favorevoli e contrari, per la mancanza in Italia di una vera conoscenza scientifica che non viene data nelle scuole. Questo conflitto tra la cultura umanistica e quella scientifica ha radici molto lontane che risalgono alla tesi idealista crociana e alla Riforma scolastica di Gentile. Un ruolo fondamentale per illustrare i vantaggi di questa tecnica spetta alla comunicazione, così come alle rappresentanze degli enologi (l’AIEE) e delle Associazionei dei produttori, unitamente ad alcune aziende e imprenditori italiani importanti come Angelo Gaja ed Oscar Farinetti, in qualità di testimonial”.

Quali le zone vinicole da tenere sott’occhio per la grande potenzialità?
Sia in Italia che all’estero.

“Non è facile fare delle previsioni a medio-lungo periodo data la complessiva instabilità economica del mondo occidentale. In Europa, un Paese molto competitivo nei vini sfusi, soprattutto per le nostre produzioni meridionali, è la Spagna. L’attuale tendenza della GDO mondiale di commercializzare il vino con private label spinge molti Paesi del Nuovo Mondo (Cile, Argentina, Sud Africa, Nuova Zelanda) a vendere il vino sfuso alle centrali di imbottigliamento che sono situate in molte città europee, nord americane e in Cina. Se dobbiamo difendere il reddito dei nostri viticoltori dobbiamo rifiutare questa impostazione e vendere i nostri vini confezionati, legandoli sempre più ai territori e ai grandi brand nazionali. È una strategia a lungo periodo che sarà premiata. Nei Paesi dell’Est Europa, anche per effetto delle sanzioni e per le disponibilità finanziarie di alcuni gruppi economici russi, si sta sviluppando una viticoltura su grandi superfici pensata per i mercati orientali. Se difficilmente questi vini saranno dei competitor sul nostro mercato, certamente sottrarranno clienti ai nostri vini. Il nostro motto nei prossimi anni potrebbe essere: meno vino, di migliore qualità, prodotto in modo sempre più sostenibile.”

 

Intervista per ALEA Evolution, di Irene Graziotto .